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Una risata che nasconde un grido di dolore: la drammatica storia di Joker

21 ottobre 2019Dott.ssa NegriSocietà

Todd Phillips ha affidato a Joaquin Phoenix la magistrale interpretazione di Joker: personaggio problematico, inquietante e dall’indubbio spessore psicologico. Se è vero, da un lato, che le vicende del protagonista si prestano a letture su più livelli, ciò che è altrettanto certo è che lo spettatore non può restare indifferente di fronte alla complessità dei vissuti che permeano la storia. Joker è il film delle contrapposizioni: quella tra riso e pianto, tra mondo interno ed esterno, tra apparenza e sostanza, tra salute e malattia e, non da ultimo, tra ricchezza e degrado sociale. 

Arthur vive con la madre inferma in un umile quartiere di una Gotham che non conosce supereroi. Un contesto lontano da sfarzi, che taglia i sussidi per le persone fragili, condannandole di fatto ad una qualità di vita precaria. Arthur è reso diverso da una malattia che lo imprigiona in una risata stridente, quasi tragica, unica via di espressione di una sofferenza profonda e indicibile. Arthur, infatti, non riesce a manifestare il proprio disagio in un modo socialmente comprensibile e così, nei momenti di difficoltà, si lascia andare ad una risata intensa, che buca lo schermo e arriva dritta allo spettatore. Un sintomo paradossale, che assume le sfumature del dolore, del pianto, dell’angoscia. Vissuti che gli altri non sembrano inclini a cogliere né ad accogliere. 

“La parte peggiore di avere una malattia mentale è che le persone si aspettano che ti comporti  come se non l’avessi”. 

Arthur rincorre instancabilmente il proprio sogno, quello di diventare un comico affermato. La sua giovinezza trascorre però tra violenza, esclusione e marginalità. E così, la mente di Arthur trasforma tutto ciò che non possiede in allucinazione. L’abbandono del pensiero logico e razionale diventa per l’uomo l’unico mezzo per colmare le mancanze sperimentate, specialmente quelle affettive. É solo in un mondo parallelo e irreale, infatti, che Arthur si sente apprezzato, amato e realizzato. Lo spettatore è trascinato in un continuo alternarsi tra realtà e pensiero allucinatorio, arrivando a chiedersi quali vicende accadano realmente e quali rappresentino l’amaro frutto della mente del protagonista. 

Quella di Arthur è la storia di una persona mite, troppo debole per regalare alla propria esistenza una direzione costruttiva. La maschera da clown dipinta sul volto del ragazzo incarna un sorriso accentuato, paradossale, ma il suo sguardo diventa sempre più specchio di un’esistenza tormentata. Il tentativo di portare un po’ di commedia nella vita degli altri rispecchia l’intensità del dramma che dilania Arthur dall’interno. Sarà il gesto di un collega, che gli regala una pistola, a generare una svolta: l’arma diventa per il protagonista del film un disperato simbolo di libertà, capace di trasformare un inetto nell’anti-eroe per eccellenza. Le gesta del clown, ormai definitivamente tramutato in Joker, percorrono un crescendo di violenza e diventano drammatica fonte di ispirazione per altri. Ed è soltanto questo modo d’essere di che rende Arthur, da sempre snobbato, meno invisibile agli occhi degli altri. 

 “Per tutta la vita non ho mai saputo se esistevo veramente, ma esisto. E le persone iniziano a notarlo”

La condotta omicida di Joker è seguita da una danza, che celebra la progressiva trasformazione del personaggio in modo quasi rituale.  Questa cruda violenza è figlia di un passato di deprivazione, che non conosce affetto né possibilità di riscatto. Accanto al filone della vita  attuale del protagonista, infatti, si inserisce il tema del rapporto con la madre Penny. L’ennesimo paradosso ideato dal regista vuole che la donna chiami il figlio “happy” (felice), convinta che il destino del ragazzo sia quello di portare gioia nel mondo. Penny rappresenta l’unico legame per il figlio, la sua unica certezza. Una sorta di ancora di salvezza che, ahimè, si rivelerà alla fine illusoria, generando in Arthur ulteriore confusione sulla propria identità. 

Il film descrive la follia come esito di una fallita ricerca della propria identità, di un susseguirsi di paradossi, ma anche come il dilagare di vissuto di non appartenenza che sfocia inevitabilmente in esiti sovversivi.

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